Salve, salvino!

Ve la ricordate la scena del Truman Show, quella del “Buongiorno! E in caso non ci rincontrassimo: buon pomeriggio e buona sera!” ?!?!

Ecco, io quella scena la vivo quotidianamente. Veramente. Appena arrivata negli States mi aspettavo di essere sconvolta da tanti piccoli dettagli, dalle tante distanze e differenze culturali, e tutt’ora continuo a stupirmi, ad imparare e a scoprire carte più e meno belle. L’educata e civile cordialità con cui si salutano gli sconosciuti è decisamente nella mia top 10 delle diversità.

Da brava romana (c’abbiamo il caratteraccio, è tutto vero!), appena approdata, uscendo a passeggiare o nel tragitto tra casa e la fermata dell’autobus, rimanevo basita e confusa dai vari: “Hi”- “How are you doing?”- “Morning”- “Afternoon” etc … tutto corredato da grandi e cordiali sorrisi. Ero così confusa che ho spesso risposto con degli educati “I think you confused me with somebody else!” o “ Hi, but I don’t know you, do I?”, rivivendomi simultaneamente in testa la meravigliosa scena de L’Odio (già ripresa da Taxi Drivers)

Non ti conosco, perché mi saluti, e sorridendo per giunta?!? Non mi ero chiaro il perché di tanta cordialità tra sconosciuti, il perché di tanti sorrisi gratuiti, del resto a Roma se azzardi un sorriso a buffo (gratuito) ti puoi tranquillamente sentir domandare “Che c’hai da ride te??”, “Aò ma che c’ho i pupazzetti disegnati in faccia??”, con quell’atteggiamento tanto minaccioso tipico del caratteraccio di cui sopra! E salutare uno sconosciuto?! Perché mai? Certo, il vicino, il verduraio, il macellaio, l’autista dell’autobus che prendiamo tutti i giorni, se po’ fa! Ma uno a casaccio, mai visto e che mai rivedremo, perché???

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Sospettereste mai che l’ingenuo salutare un conducente dell’autobus possa portarvi a vivere esperienze assai particolari?!

In Etiopia ho iniziato dopo due mesi di permanenza a prendere i famosi mini-bus. Ad Addis ti puoi muovere alternativamente con taxi, mini-bus o bus formato normale. Il bus formato normale è sconsigliatissimo per i ferengi (stranieri), per due ragioni: 1. sicuro ti prendi le pulci; 2. è sicuro che tu ne usicrai stropicciato, se riuscirai ad uscire (!!).

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Il taxi ha i suoi costi, per quanto siano economici rispetto a quelli nostri (o americani), quando vivi li spendere i tuoi Birr (moneta locale) ti pesa!

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Rimane il mini-bus. Un furgoncino che nasce a 9 posti ma viene di solito inzeppato fino a contenere una quindicina di persone. Mentre i bus normali hanno delle fermate come da noi, i mini-bus sono vaghi. Mezzi anarchici. Ci sono dei punti in cui in linea di massima si sa che si fermano. In pratica si aspetta dove ci sono delle persone già in attesa, in una zona in cui è noto che passano.

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Ora mi dicono che il sistema è cambiato, ma quando io ero ad Addis i mini-bus non riportavano alcun tipo di indicazione sulla direzione o provenienza. C’era un omino affacciato al finestrino del portellone che urlava la direzione e un accenno di zone di passaggio. In amarico, ovviamente! Io, dopo averli studiati ascoltando attentamente le varie possibili direzioni per pomeriggi interi, dopo averne preso qualcuno con amici o colleghi, mi sono armata di coraggio e mi sono avventurata per andare a lavorare. Sapevo dove aspettare. Mi sono fatta passare una decina di occasioni di salire, non certa di aver colto bene la destinazione, e alla fine mi sono infilata in un mini-bus. In verità mi ci sono lanciata dentro, non esistono file ordinate ad Addis (come a Roma!) e le persone con la fretta di andare da qualche parte semplicemente non hanno pietà! Ho un discreto senso dell’orientamento quindi sapevo che, in caso la strada non mi fosse tornata, avrei potuto saltare fuori. Ora, dopo aver pagato la mia tariffa (la sapevo ed avevo gli spiccetti contati!) mi mancava solo di tenere gli occhi aperti e chiamare la mia fermata. Già, delle fermate per prendere il mini-bus non v’è certezza ma si può richiedere la propria fermata per scenderne a piacimento. Ovunque si voglia! Una goduria. Una comodità estrema. Eccetto quando si ha fretta e si vedono e sentono succedersi fermate di 10 metri in 10 metri. Comunque, qui non c’è pulsante né cordicella da tirare per richiedere la fermata. Non c’è spazio per timidezze e riservatezze, si ha da chiamare a gran voce la propria Warach (fermata). Di solito si allunga la seconda a in un Waraaaaach. Io, che spesso e volentieri so essere molto grezza, in trasferta invece sono un agnellino ben educato, quindi mi schiarisco la voce e nel mio ancora incerto Amarico sparo un “Waraach. Ikarta!” (fermata. per favore!). È buona educazione chiedere per favore e sembra veramente brutto dare un ordine. Scoppiano tutti a ridere. Ecco. Avrò detto cazzo invece di fermata?! Il mio amarico fa tanto ridere?! Un po’ umiliata scendo e cerco di riparare con un timido “Betham Ameseghenallou” (grazie mille). Sbotto doppio di risate. Tapina striscio via e faccio le mie due ore di lezione, rimedio il mio passaggio a casa da una collega e quando rientro racconto l’accaduto a Daniel. Stessa reazione. Ride. Pure lui. Io mi offendo e gli dico che mica si fa così – che se uno cerca di imparare la loro lingua, che ha dei suoni assai complessi, dovrebbero avere un po’ più di pietà però. E lui mi ferma. “Ma no, non c’entra mica la lingua. Sei un tesoro quando parli amarico e la gente si sente indubbiamente molto lusingata dal tuo sforzo. (è vero, gli habesha adorano i ferengi che provano ad integrarsi linguisticamente!) È solo che non si chiede per favore (ikarta), né si ringrazia. Tutto qui.

Eccerto. Tutto qui. Come non intuirlo!?!?

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Perché è poco chiaro. Perché ci si confonde. Perché il conducente dell’autobus, quello che in Etiopia NON SI RINGRAZIA, quello a cui a Roma È VIETATO RIVOLGERE LA PAROLA (ma se lo vedi tutti i giorni lo saluti e chi se ne frega della legge!)

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qui in America, invece, lo si ringrazia e gli si augura buona giornata. Come fosse un amico che ti ha dato uno strappo per piacere! Dopo aver tirato la tua cordicella (niente volgari e sempre-sudici pulsanti), qua si tira la corda gialla che corre fiera lungo il perimetro di tutto l’autobus, prima di scendere, ti giri (sennò come lo mostri il tuo bel sorriso?!?!) e gli molli un “Thanks, man!”. Di solito vieni generosamente ripagato con un “Have a good one!”. Ora, non so bene l’autista americano come se la vive, se e quanto lo fa impazzire il dover salutare TUUUUTTI i passeggeri del suo poderoso mezzo nel corso del turno lavorativo, ma sono certa che un romano medio al secondo giorno si armerebbe alternativamente di cuffie o di mitra … e che in Etiopia si farebbero grasse risate!

Ma, come vedremo di seguito, la buona educazione qua gli scorre nelle vene. Credo li crescano ad hamburger e gran sorrisi.

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Perché dunque salutare gli sconosciuti? Perché qua si fa, si usa!

Incroci la signora con la spesa per strada ed è “Morning!”. Sorriso.

Incroci la mammina ed è “Have a good one!”. Sorriso doppio, uno per il bebè.

Incontri il pischello (giovane) ed è “whazup?!”. Meno sorriso.

Incontri il business man ed è “How are you doing?” Sorriso.

… Ma che ti frega a te di come sto io esattamente? E come ti rispondo? AIUTO.

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Ok, proviamo a trovare le «coppie adiacenti», seppure non abbiamo risposte-eco come in italiano(troppo facile eh!):

Morning!” – “Morning!”

Have a good one!” – “Thanks! You too”. Ci sono voluti una decina di incontri casuali per capire che il good one era il mio scolastico good day e che il thanks non serve.

whazup?!” – “whazup?!” alzando la testa leggermente, poco contatto visivo però, tipo: ti sto parlando ma non ti sto parlando! I gggiovani!

How you doing?” – Eh. Come sto? Bhè, non male dai! Però, sei sfacciato te eh! È una domanda intima questa. Come sto? Io mica me lo chiedo così tutti i giorni … è una domanda difficile porca vacca. Che vuoi da me? Aiutoooooooo!!!! OK. Riproviamo.

How you doing?” Vai con un educato “Good, thanks!”, ma sembra brutto poi, che faccio non ti chiedo come stai te adesso?!

How you doing?” – “Good, thanks and you?” … ehm … ci stiamo allargando troppo? Troppo intimi? Infondo ci stiamo incrociando per strada, o in ascensore, o alla cassa del supermercato …

Good” e basta! Anche se a me non sembra affatto giusto non rigirare la domande ed avere una risposta, così è. Quando ti allarghi in quel “and you?” al 90% non ti viene fornita risposta, quindi, meglio non chiedere! Un thanks non ti costa nulla quindi ogni tanto ce lo metti!

Tanto tempo e tanti incontri vissuti e solo osservati ed ho capito. Ho capito che nessuno si aspetta realmente una risposta dettagliata, tantomeno si aspettano onestà nella tua risposta. Insomma, non gliene frega nulla di come stai realmente, è una formalità! … Quindi, risparmiamo tempo e accorciamo le risposte?!?! Na-ha! Anche perché per me è difficile non rispondere onestamente, mi viene naturale, è più forte di me, seguo la pancia, vado di istinto e do risposte inaspettate: “I am fabolous!” – “Oh, you know, not so good today” – “Best day of my life” – “Er. So and so.” – “Couldn’t be better!” – “mmm. Kind of sad!”, e fotografo nella mia testa le espressioni sconvolte dei miei interlocutori! Mooolto più interessante così!!! E soprattutto, molto più in tono con ciò a cui sono abituata io. Confesso però che in certi giorni mi verrebbe da rispondere più tipo:

topofthe morning

ma imbavaglio la coatta che abita dentro me!

È vero, anche in Italia quando qualcuno ci chiede come stiamo rispondiamo in automatico con un educato e distaccato “bene”, è la norma. È educazione. Anche le nostre forme di saluto sono fissate da regole, ma io le regole non le seguo neanche nella mia lingua. Se sto bene è “bene” ma se sto male è “male”. È uno dei miei principi base, ed è nella mia natura. In fondo se qualcuno si sente così vicino da chiedermi come sto (ribadisco: è una domanda intima!) si merita la risposta più vera possibile, e se non la sa gestire, peggio per lui/lei. Del resto mi piace mantenere la mia convinzione che noi italiani, per quanto abbiamo delle nostre norme, restiamo diretti, sfacciati a volte, ma sempre veri! Almeno, io ci provo!

E di nuovo mi viene in mente la mia esperienza etiopica. I salamelecchi. Gli etiopi sonoi MIGLIORI salutatori! In Etiopia il salutare è un’attività lunga e ben strutturata. Così vuole l’etichetta. Quelle che io, agli inizi della mia permanenza etiopica, pensavo fossero delle vere e proprie conversazioni, piene e anche profonde, col tempo si sono rivelate essere delle formali e banali fasi di saluto, di 5 minuti di orologio eh!

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Selamne

Endeitno

Denane

Indemmene

Bitessab indeitno

Abate salamnew

Enate salamnech

Sera turuno

Queste le domande di base, cui seguono delle risposte più o meno dettagliate e le dovute domande di ritorno! Io chiedo a te, te chiedi a me! Le domande passano dai generici “come stai – come va – tutto a posto – tutto bene – tutto in pace?”. Nop. Non si sceglie una forma unica, si giocano tutte le carte, si fanno TUTTE queste domande. Poi si passa ai più intimi “la famiglia come sta -tua madre come sta – tuo padre come sta?”, per concludere con gli ordinari “ come va il lavoro?” e magari fare qualche osservazione sul tempo!

Il tutto anticipato da una stretta di mano con hi-5 di spalla o da 4 baci, due per guancia!

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Primi mesi in Etiopia ed io, sempre un po’ ingenua, pensavo fosse molto bella tutta questa attenzione, questo andare a fondo. Mi sembrava meraviglioso che si trovasse sempre il tempo di scoprire come sta anche l’intero parentado, invece di farsi delle domande di forma fregandosene delle risposte, invece di recitare una formula. Delusione immensa quando ho innocentemente chiesto alla mia sorellina etiopica, che aveva appena passato i suoi buoni 10 minuti salameleccheggiando con una vecchia amica incontrata al mercato, “allora, come sta la sorella di Yerus?”. Yerus era stata una mia studentessa di italiano e ricordavo che la sorella era malata. Dalla loro conversazione avevo capito che l’avevano quantomeno menzionata “Ye anchis ehet denanat?”, applicando la mia abilità nel distinguere vocaboli ed estrapolarne il senso generale della conversazione. Ma sulla risposta mi ero inevitabilmente persa. “Ah, bo. Non lo so!” Mi risponde Ayal nel suo italiano perfetto. “Ma come no? Glielo hai chiesto, ti ho sentito, dai. Ma che sta male e non me lo vuoi dire?” “No. Non lo so veramente” – “ Ma se glielo hai chiesto … “ Insisto, sono di coccio io! “Eh, si che glielo ho chiesto. Certo. Devi chiedere sempre, sai. Però poi non puoi sentire tutte le risposte, dai.”

Basita. F4. “Mi stai dicendo che recitate una formula? Vi palleggiate domande di cui non ascoltate le risposte? Ma non è carino!!!!!! Ma non ti interessa sapere come sta sua sorella?

Perché tu chiedi sempre ai tuoi amici come sta la loro famiglia?”

… mmm … Ayal oramai è mezza italiana. Parla la lingua. Conosce la cultura. Conosce l’Italia e gli italiani … non posso mentire spudoratamente, lo sa benissimo che NO, noi non facciamo tante domande quando ci incontriamo. 1-0.

Vabbe ma perché allora lo chiedi? Cioè, perché passate tanto tempo a farvi domande se poi non volete la risposta? Perdete tempo no?” È più forte di me, insisto!

E perché, dove dobbiamo andare di corsa?”

Auch. Mi arrendo. È cosi e basta. Ayal mi sconfigge dialetticamente. L’Etiopia umanamente.

Tutta questa forma non ha senso per me. Ma la fretta ne ha ancor meno ed almeno in Etiopia si prendono il tempo per dedicarsi alla forma coprendone tutte le sfumature possibili, diversamente dagli italiani che giocano a farsi l’eco e dagli americani che li pronunciano a sorriso serrato i loro saluti!

In fin dei conti in nessun caso i saluti presuppongono la volontà di augurare veramente al destinatario quello che letteralmente significano, ad esempio di passare una buona giornata (povera illusa io!), né realmente presuppongono uno scambio di informazioni.

Nel salutare qualcuno, in qualsiasi lingua lo si faccia, l’obiettivo è anche quello di mettere tutti a proprio agio, di stabilire un contatto, una connessione, ed evidentemente cultura che vai percorso che trovi! Basta osservare e rispettare le regole vigenti nella comunità e ricordare che, più o meno ovunque, il mancato saluto di persone che si conoscono è considerato un’offesa, e che in qualche posto lo stesso vale per gli sconosciuti!

Pragmatica interculturale: ti osservo, non sempre ti condivido, cerco di assorbirti … ma comunque non ti temo!

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Nota sui falsi-amici linguistici: anche se letteralmente “hey stranger” si può tradurre con un innocente “ciao, sconosciuto/estraneo”, evitatevi l’imbarazzo di usarlo con degli estranei (Sì. Parlo per esperienza!). Il significato è tutt’altro!

http://www.urbandictionary.com/define.php?term=hey+stranger

BYE, strang …ehm … everyone!